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al testo di Livia Bluma
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A sbirciare il tepore maldestro della mia stanza sta una lente lontana, occhio di un vecchio che si finge storie: le tiene in grembo fino a maturazione, le spezza, le offre - lui, aedo gentile, messia di strada - senza prezzo alcuno alla gente incauta che con labbra sdegnose lo scaccia - vedono solo cartacce in quei pezzi di vite, mozziconi spenti, e farci caso sembra roba da pazzi - gente che scivola in direzioni opache, cani detersi ben addestrati a traiettorie collaudate, che non spaventano più. Ma sussurra il vecchio - ed io, via, mi fido - che sotto al pelo e alle zanne dorme un rorido nòcciolo goffo, il ricciolo di un bambino, che si vuole a tutti i costi camuffare - chi lo sa poi cosa siamo disposti a sacrificare pur di sentirci al sicuro.
Da che parte andrà mai la mia angustia - questa spina di forma bislacca, la mia miseria - che mi ritrovo a farmi da balia, la sera, mentre cuocio sul letto sudato d’estate, mentre il caldo mi asciuga il tempo rimasto, e non so più se sono io o una storta chiazza di quel che volevo e che non sono capace di diventare, avulsa dalla storia che di me si racconta, protagonista sgraziata sempre di corsa tra un rigo e l’altro in attesa che prima o poi qualcosa accada, ed esposta ai cambi di trama, ai colpi di vento di questa penna d’oca che sfugge ai cercanti come un odore sotteso, una postilla, una chiosa che gracida dentro l’erbaggio e non alza la testa.
Quanti sono i narratori e dove dorme la verità: domande mal poste che meritano niente di più che un eco siderale, di perdersi nel vuoto là dove sta la memoria di cosa è o non è stato - non fa differenza.
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